Cosa vuol dire Walkscapes? La parola nasce dalla fusione di to walk (camminare) e landscapes (paesaggio). Nel saggio “Walkscapes. Camminare come pratica estetica” Francesco Careri dimostra che la pratica del camminare costruisce il paesaggio. Lo scopre attribuendo significato e ordine a elementi che, fuori dall’esperienza del cammino, resterebbero privi di senso e di reciproca relazione.
Nella sua opera, Careri ripercorre tutte le forme di cammino che hanno interessato l’umanità. Dall’erranza senza punti di riferimento del Paleolitico, al nomadismo del Neolitico. Dalle esperienze provocatorie del dadaismo fino ad arrivare alla land art. In tutti i casi, il camminare è stato il centro di un’esperienza estetica. Di una involontaria e immateriale costruzione: il percorso.
Ma non finisce qui. La passeggiata urbana è alla base degli esperimenti sugli smellscapes (i paesaggi olfattivi, ve li ricordate?) di Victoria Henshaw e delle mappe emozionali di Christian Nold. In entrambi i casi la relazione tra io e luoghi si realizza attraverso l’atto immersivo del passeggiare. Camminando infatti è possibile raccogliere esperienze olfattive e input emotivi. Durante il percorso si scoprono problemi e meraviglie, si raccolgono sensazioni e visioni. Si gettano le basi per nuovi progetti.
Nel nostro articolo recensiamo il saggio di Careri e al contempo riflettiamo sul cammino come forma di viaggio. Ci siamo chiesti che relazione intercorra fra walkscapes, passeggi percorsi e nuove forme di progettazione, e il turismo on the road. Il turismo lento ai giorni nostri sta riscuotendo molto successo e ci interessa da vicino perché spesso rappresenta la riscoperta (anzi, la rivincita!) della provincia.
Vi incuriosisce? Continuate a leggere!
Walkscapes – Francesco Careri: la nostra recensione
Scheda
Titolo: Walkscapes. Camminare come pratica estetica
Autore: Francesco Careri
Casa Editrice: Einaudi
Collana: Piccola Biblioteca Einaudi/ Arte. Architettura. Teatro. Cinema. Musica.
Anno di pubblicazione: 2006
Pagine: 167
Prezzo: 20,00 £
La recensione
Il saggio si divide in quattro sezioni a loro volta articolate in brevi capitoli. È preceduto dalla prefazione di Gilles. A. Tiberghien e seguito da un robusto apparato di note bibliografiche.
La prima parte, Errare humanum est, ripercorre le esperienze di erranza delle società primitive. L’errare non è un errore, ma un girovagare senza punti di riferimento come prima preziosa forma di trasformazione simbolica del paesaggio. La seconda parte, Anti Walk, racconta le esperienze di deambulazione attuate dai Dadaisti, Surrealisti, Lettristi, Situazionisti: una vera e propria storia del paesaggio percorso. La terza, Land Walk, analizza l’atto del camminare come forma di intervento e le prime escursioni urbane negli “spazi vuoti” delle periferie, nei luoghi d’abbandono e di rimosso. La quarta parte, Transurbanza, racconta le esperienze di Stalker in alcune città europee: egli analizza gli spazi urbani “di transito”. Si tratta di territori in continua trasformazione che solo il camminare riesce a cogliere nella loro mutevolezza.
Le pagine del saggio sono inframmezzate da disegni, fotografie, mappe, citazioni coinvolgenti che arricchiscono l’agile argomentazione. L’opera si presenta perciò interessante e accessibile anche a chi, come noi, non è un architetto e non ha fatto studi specialistici di estetica del paesaggio.
E noi, da semplici appassionati, abbiamo individuato molti spunti di riflessione, interessanti per chi ama camminare a lungo, senza una meta precisa. Girovagando per spazi poco turistici, spesso io e Francesco ci immergiamo nei luoghi banali del quotidiano instaurando con essi un vero e proprio scambio di umori e sentimenti. Ci siamo riconosciuti in molte pratiche di esplorazione raccontate da Careri. Spesso, infatti, ci è capitato di attraversare spazi marginali seguendo itinerari estemporanei e lontani dal pittoresco. E da queste esperienze abbiamo ricavato una conoscenza dei luoghi più problematica e chiaroscurata. Fatta di frammenti di vita, incontri imprevisti, segni ambigui.

Walkscapes e il turismo lento dei cammini
Le passeggiate urbane sono funzionali a un nuovo modo di progettare la città e rientrano negli interessi di architetti, designer, urbanisti e artisti. Lo stesso Francesco Careri è Dottore di ricerca in Progettazione Architettonica ed Urbana e insegna alla facoltà di Architettura di Roma Tre. Ed è membro di Stalker / Osservatorio Nomade. È un’organizzazione interdisciplinare che compie ricerche e progetti partecipati sulla città sperimentando nuovi modi di leggere il paesaggio.
Noi pensiamo tuttavia che la riflessione sul valore estetico del camminare possa interessare anche noi viaggiatori slow. Soprattutto se da un viaggio ci aspettiamo l’immersione nel quotidiano e l’imprevisto. Se alla spettacolarità dei monumenti più noti accostiamo (e talvolta preferiamo) la meraviglia casuale. I territori vergini o, al contrario, quelli usurati dal tempo e a un passo dall’abbandono.
Errare, girovagare, andare a zonzo, passeggiare: in ciascuna di queste azioni è ravvisabile a nostro avviso la condizione della lentezza, la capacità di gustare il percorso, talvolta creandolo sul momento. Il turismo dei cammini ha spostato l’attenzione dei viaggiatori dalla meta al tragitto. Ha dato importanza al percorso, a tutto ciò che in un viaggio tradizionale (in auto, in treno, in nave o in aereo) si perdeva o veniva considerato irrilevante. Nessuno meglio del viandante può comprendere il concetto di walkscape. Il viandante infatti costruisce i suoi paesaggi attraverso i suoi passi.
Se avete fatto vostra la filosofia della viandanza e amate viaggi e percorsi a piedi, ritroverete nell’incipit di questo saggio un repertorio di azioni collegate al puro atto di camminare. E vi emozionerete. Francesco Careri presenta, infatti, una lunga lista di verbi e una di complementi oggetto liberamente attribuibili a ciascun predicato. Intrecciando e combinando le parole in modi sempre diversi è possibile raccontare l’esperienza del cammino e il rapporto emozionale del viandante col paesaggio.

Il labirinto: perdersi è un problema o un valore?
“Non sapersi orientare in una città non vuol dire molto. Ma smarrirsi in essa, come ci si smarrisce in una foresta, è una cosa tutta da imparare…” Walter Benjamin, Berliner Kindheit um neunzehnhundert, 1930-1933.
Fra i numerosi spunti di riflessione che scaturiscono dalla lettura di Walkscapes, uno in particolare ci ha colpito: il valore del perdersi. Forse perché lo abbiamo sperimentato più volte.
La più abusata retorica di viaggio ci ricorda quanto sia bello e raccomandabile” perdersi fra vicoli e viuzze” o tra i filari di una vigna. Fra i campi di girasole o nei mercati rionali. In realtà si tratta, quasi sempre, di esperienze piuttosto controllabili e “addomesticate”, a misura di turista. Perché oggi non siamo più abituati a perderci per davvero, anzi lo temiamo e lo viviamo con angoscia sin da bambini. Si pensi a tutta la tecnologia che consente una rapida geolocalizzazione, alla nostra dipendenza da navigatori e mappe. A questa logica non si sottrae neppure il viaggiatore che intraprende un cammino e ne segue le tracce col GPS o da cartelli e carte.
In molte civiltà primitive, invece, perdersi ha valore iniziatico. Rappresenta un rito necessario al passaggio nel mondo degli adulti. Significa confrontarsi con la paura di non avere punti di riferimento ma anche costruire da zero un percorso. Un itinerario mai tracciato che ci pone di fronte a mondi diversi e ci spinge al confronto. Franco La Cecla in Perdersi, l’uomo senza ambiente (1988) la reputa un’esperienza rigenerante dal punto di vista psichico anche se nessuno più la consiglia.
Inoltre secondo Careri errare ha un duplice significato. Da un lato vuol dire commettere un errore, allontanarsi dalla meta, dall’altro girovagare deliberatamente senza una meta. Allo stesso modo perdersi significa sperimentare l’apprensione nel suo duplice valore di ansia, ma anche di apprendimento.
Sentirsi in un labirinto quindi, anche se ci spaventa, è un’esperienza da cui siamo inconsciamente siamo attratti. E che ci fa bene.

Conclusioni mon amour
Molte volte abbiamo visitato borghi e frazioni di campagna per le quali ci è stato chiesto: “Cosa c’è da vedere?” e la prima riposta che ci veniva da dire era “Niente”. Eppure è proprio in quel niente spesso siamo riusciti a trovare ciò che cercavamo di più: il sentimento di provincia. Camminare senza una meta attraverso i vuoti di una città o gli spazi meno turistici e a volte palesemente irrilevanti ci appartiene. E ci siamo più volte interrogati sul senso dei nostri viaggi, domandandoci se in noi ci fosse davvero lo spirito dei viaggiatori o piuttosto quello del flanêur. Col saggio di Careri ci siamo sentiti a nostro agio. Ci siamo riconosciuti nella transurbanza e abbiamo accolto l’invito a perderci.
Abbiamo intanto aggiunto un altro importante tassello al mosaico della Geografia Emozionale. Perciò se anche voi siete appassionati, non possiamo che consigliarvi la lettura del saggio.
Voto: otto e mezzo
