Abbiamo riletto Fontamara per proporvi un’analisi dei luoghi e dei paesaggi. Un viaggio nella provincia montana dell’Aquila così come è stata raccontata in una delle opere più intense (e dolorose) del primo Novecento.
Fontamara (1933) è un romanzo di Ignazio Silone, pseudonimo di Secondo Tranquilli. Racconta di un oscuro borgo, stretto fra le montagne nella Valle del Fucino. Ma fu scritto e pubblicato in Svizzera, dove l’autore viveva per sfuggire alle persecuzioni fasciste. Nonostante la distanza, la rappresentazione della terra d’Abruzzo e della vita dei contadini è scottante e drammatica.
Ignazio Silone era nato a Pescina dei Marsi (Aq), un paese nella piana del Fucino, il lago che i Torlonia avevano fatto prosciugare nell’Ottocento per sfruttarne la terra fertile. Nel 1915 il suo paese era stato distrutto dal terribile terremoto di Avezzano che fece 3500 vittime, tra cui la madre e molti fratelli dello scrittore. La ricostruzione aveva dato origine, poi, a molte speculazioni ai danni, come al solito, dei “cafoni” ignoranti e raggirati. In Fontamara troviamo l’eco della loro sofferenza, ma anche il bisogno di un risveglio collettivo.

Fontamara è il nome fittizio di un borgo in cui si mescola la topografia di Pescina e quella di Aielli, un paese di montagna, in cui nel 1980 è stato girato il film ispirato al romanzo. Entrambi oggi custodiscono con cura la memoria dello scrittore. A Pescina sta per nascere un Parco letterario dedicato a Ignazio Silone e giovedì 10 Settembre 2020 è stata inaugurata la sua casa natia dopo i lavori di recupero. Da qualche anno esiste anche Il Sentiero Ignazio Silone che tocca tutti i luoghi più importanti presenti nelle sue opere e nella sua vita. Ad Aielli, invece, nel 2018 l’intero romanzo è stato scritto in un murale ad opera dell’artista Andrea Parente, in arte Alleg.
Scheda
Titolo: Fontamara
Autore: Ignazio Silone
Anno della prima pubblicazione: 1933
Casa Editrice: Mondadori
Collana: Oscar mondadori
Anno: 2016
Pagine:182
Prezzo: 12,00 £
Fontamara: analisi dei contenuti
Dieci capitoli e una prefazione. Il romanzo racconta i soprusi perpetrati ai danni dei contadini di Fontamara da parte del podestà del capoluogo, l’Impresario. I “cafoni” impotenti e ignoranti vengono continuamente raggirati, privati dell’acqua di un ruscello con cui irrigano i loro campi stenti e delle terre incolte su cui passano le greggi al pascolo. Quando comincia ad affiorare un barlume di coscienza sociale e di ribellione, gli abitanti vengono brutalmente puniti dagli squadristi fascisti. Il romanzo ha l’urgenza e la coralità di chi ha conosciuto bene l’entroterra abruzzese, la sua miseria, tra prepotenze ataviche e nuove ingiustizie.
Il titolo e l’incipit
Fontamara è il nome fittizio di un borgo montano nella Valle del Fucino. È un nome simbolico che allude alle ingiustizie patite dai contadini privati della loro unica fonte d’acqua. La scelta di un nome inventato nasce anche dalla volontà di rappresentare, in un borgo immaginario, tutti i piccoli borghi meridionali dell’entroterra. Luoghi in cui la mera sussistenza è sempre stata una lotta difficile, e la miseria e l’ingiustizia una regola accettata con rassegnazione.
Il romanzo si apre col buio fitto che cala a sera, d’improvviso, sul borgo di Fontamara. Se ne accorgono i contadini che ritornano a casa al tramonto dopo una giornata di duro lavoro. Il borgo si confonde con la montagna bruna, arida, mentre gli altri paesi, più lontani, uno dopo l’altro accendono i loro lampioni. A Fontamara è stata tagliata la luce perché i suoi abitanti non pagano le bollette. E come potrebbero?

Quando giunge in paese l’infido Cav. Pelino che chiede loro di firmare (in bianco) una petizione, tutti credono che voglia aiutarli a ripristinare la corrente. Le firme, vere e false, sono estorte con l’inganno, facendo leva sull’ignoranza generale. Si scoprirà il giorno dopo che i contadini hanno così avallato la pretesa dell’Impresario, il meschino podestà del capoluogo. Ora potrà deviare a suo favore l’acqua del torrente con cui gli abitanti di Fontamara irrigavano i propri campi. Di fronte alle proteste e alle rimostranze, i cafoni otterranno con un raggiro di poter utilizzare un solo quarto dell’acqua.
Un incipit in medias res che ci immerge, senza lirismo, in una realtà dura fatta di inganni e di sofferenza. In cui la prepotenza trova terreno fertile nell’ignoranza e nella disarmata ingenuità degli ultimi. Vittime non solo di soprusi, ma anche di crudeli beffe.
I personaggi
Nel romanzo agisce una coralità di vinti, i cafoni. Le stesse voci narranti – un uomo, una donna e il loro figlio giovanotto senza nome – sono parte di questo universo. Tra questi il generale Baldissera, che in realtà è un vecchio scarparo, Scarpone, Pasquale Cipolla, Ponzio Pilato, Zompa e tanti altri. E fra le donne la vedova Marietta con la sua cantina, Maria Grazia ed Elvira, figure tragiche entrambe. Dall’altra parte ci sono i “cittadini”. Individui meschini pronti a difendere i propri piccoli interessi, con astuzia e crudeltà: l’Impresario, eletto podestà. Filippo il Bello fra gli squadristi fascisti. Don Circostanza, finto amico del popolo e pronto ad ingannarlo sempre facendo leva sull’ignoranza, il Cav. Pelino.
Su questa dolente coralità, che ricorda i Malavoglia di Verga, spicca Berardo Viola, un giovane impetuoso. Sarà lui ad incarnare il bisogno di giustizia, ancora fumoso ed impreciso, il bisogno di una più giusta spartizione della terra. Sarà lui la vittima sacrificale da cui (forse) timidamente nascerà la speranza di un riscatto.
Il messaggio
La storia non contiene un messaggio edulcorato. Denuncia la durezza della vita dei contadini in ogni tempo, ma ancor di più nel Ventennio fascista. Racconta l’ingiustizia sociale, ma anche la piaga dell’ignoranza e la mancanza di una coscienza di classe in un crescendo di drammaticità. Ci lascia nel finale con una debole speranza. Una domanda che è quasi un grido. Ma comunque ricerca di una strada, di un’alternativa: Che fare?
Fontamara: analisi dell’ambiente e del paesaggio
Solo nella prefazione Ignazio Silone si abbandona alla descrizione di questo borgo che nasconde in sé tanti borghi del Mezzogiorno. È un borgo oscuro, circoscritto dalle montagne e situato nella Marsica, a nord del Lago prosciugato di Fucino. I suoi vicoli, costituiti perlopiù da scale scoscese, sono stretti. Consentono la vista solo di un ritaglio di cielo. Le case, addossate le une alle altre, appaiono disposte sui gradoni della montagna. Hanno una sola apertura e dentro, come fossero grotte, vi si ammassano uomini e animali. “Un villaggio insomma come tanti altri; ma per chi vi nasce e cresce, il cosmo”.
In questo luogo chiuso si ripete nei secoli una vita dura, cicli di stagioni ingenerose scandite dalla fatica dei contadini. Spesso inutile. È un microcosmo sempre uguale a se stesso, atavico. Eppure anche qui fa irruzione d’improvviso la Storia, incomprensibile e violenta, caratterizzata dalle rappresaglie fasciste. Nel resto del romanzo le parentesi descrittive si riducono. I luoghi sono visti con gli occhi di chi li abita e spesso vengono dati per scontato. Indicati solo quando funzionali al racconto: è il caso del torrente, del campanile della chiesa, delle città più lontane (Avezzano e Roma).

La Montagna e la Pianura
Dal punto di vista dei narratori c’è sempre una dicotomia tra la montagna e i montanari, da un lato, e la pianura e le sue città dall’altra. Le città di pianura rappresentano la ricchezza sottratta ed estorta, l’ingiustizia perpetrata dai potenti, le beffe gratuite, la crudele violenza. I “cittadini” disprezzano i “cafoni”, non provano alcuna empatia, nessun moto di giustizia nei loro confronti. A loro volta i montanari sono divisi fra un atteggiamento di scetticismo e di protesta verso i cittadini e un atteggiamento (molto ingenuo) di speranza, di ricerca di aiuto. Simbolicamente nel romanzo sono i luoghi da cui hanno origine le azioni con le conseguenze più drammatiche. Tutto ciò che dalla città entra nel villaggio è foriero di sventura.
Nella prefazione l’autore sottolinea come da sempre la pianura e la città abbiano cannibalizzato le risorse della montagna e dei loro villaggi. Esemplare è il caso delle terre fertili nella conca del Fucino, terra promessa interdetta ai montanari. Ma anche tutti quei provvedimenti atti a mettere in ginocchio la già miserevole economia dei contadini.

Roma
La capitale, vista con gli occhi dei cafoni, è una città immensa e caotica. Incomprensibile. Le fontane monumentali sembrano solo un enorme spreco. Le banche, che si moltiplicano fra le strade, templi con cupole immense al pari delle chiese. È un mondo che manca di coordinate familiari. Senza punti di riferimento. Che parla una lingua incomprensibile, con regole e codici di comportamento del tutto estranei ai montanari.
Roma è inoltre il lontano in cui Berardo Viola ripone tutte le sue speranze di ascesa sociale. Un luogo di misteriosi avvenimenti, di cambiamenti la cui eco non giunge fino a Fontamara. Rappresenta, in una proporzione più ampia, tutto ciò che le città della piana del Fucino sono rispetto ai borghi di montagna. Un luogo di più grandi speranze, di più cocenti delusioni, di raggiri su più ampia scala, di violenza organizzata cieca, da cui, questa volta, non c’è scampo.
Conclusioni mon amour
Fontamara: l’analisi dei suoi paesaggi ci porta come sempre a interrogarci su cosa accada oggi ai borghi di montagna. Nella Marsica così come in altre zone dell’entroterra meridionale. Nel corso degli anni questi paesini hanno vissuto il dramma dello spopolamento. Molti vi si sono arresi, altri lo stanno combattendo in molti modi. Una risposta passa certamente attraverso la valorizzazione della propria storia, delle proprie tradizioni, del proprio (ricchissimo) patrimonio naturalistico.
Nella Marsica si sono diffusi diversi percorsi che attraversano tratturi e sentieri di montagna guidando i visitatori alla scoperta dei borghi. Fra questi c’è il Cammino dei Briganti o il Sentiero Ignazio Silone, dedicato ai luoghi raccontati nelle sue opere e tracciato dal noto alpinista Stefano Ardito. In particolare, il ricordo di Fontamara ha ispirato un murale ad Aielli, nel quale il testo del romanzo è stato scritto interamente. Il borgo di Aielli ha infatti dato vita a Borgo Universo, un museo a cielo aperto fatto di murales colorati tra i vicoli, che si arricchisce ogni estate col contributo di artisti internazionali.
Iniziative di questo genere fungono da volano anche per i paesi vicini e rappresentano, al momento, l’arma migliore contro l’impoverimento culturale e demografico. A noi piace molto l’idea che la lettura (o la rilettura) di grandi classici possa ispirare la ricerca di luoghi e la loro cura. Amiamo perciò i Parchi letterari. Continueremo a portare avanti questa rubrica di raccordo tra la letteratura e la provincia. Fra i luoghi e la poesia.
Se non l’ hai ancora letta, qui puoi trovare la nostra analisi su Cristo si è fermato a Eboli
